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RELITTO PETROLIERA “HAVEN”

A distanza di dieci anni dal tragico affondamento della superpetroliera VLCC Haven abbiamo fatto alcune immersioni sul relitto per poter dare un quadro aggiornato e più completo possibile sull’evoluzione della vita e sulle modalità logistiche per chi volesse immergersi sul posto. Prima di entrare nel vivo, facciamo qualche considerazione generale.

Oggi, a più di vent’anni dalla tragedia, ricostruiamo la storia del più grande e affascinante relitto del Mediterraneo. Quando nel mese di aprile del 1991 al largo di Arenzano affondò, dopo due giorni d’incendio, la superpetroliera Haven si rischiò un gravissimo disastro ambientale nel caso si fosse riversato in mare tutto il petrolio grezzo che era rimasto nelle stive al momento dell’esplosione. Prima la superficie, poi i fondali e infine le coste sarebbero state ricoperte da una enorme marea nera inevitabile in questo tipo di incidenti.
Tutto faceva temere il peggio, anche considerando che la Haven era gemella di una serie di sei superpetroliere costruite fra il 1972 e il 1973, tutte nei cantieri Astilleros Espanoles di Cadice, metà delle quali erano state già coinvolte in terribili disastri. La “Amoco Cadiz” il 16 marzo 1978 ebbe un guasto al timone durante una violenta burrasca al largo della Bretagna, si spezzo e sparse in mare 230.000 tonnellate di grezzo causando un disastro ambientale. L’11 marzo del 1980, al largo della Mauritania, esplose la Maria Alejandra. Il 3 aprile 1980, al largo del Senegal esplose la Mycene.

Per comprendere meglio le cause dell’incidente abbiamo intervistato Eugenio Battaglia comandante della Haven dal 1 aprile 1975 al 1978. Ecco cosa ci ha raccontato. “La nave in effetti era nata un pò disgraziata. Lo scafo era ottimo, ma il tallone d’Achille erano gli impianti elettrici. Era necessario tenere sempre gli occhi ben aperti per prevenire i problemi che spesso si verificavano a bordo. La società armatrice Amoco si comportava seriamente e provvedeva tempestivamente alle sostituzioni dei pezzi e alle revisioni, finchè la mise in disarmo nel 1982. 

Poi la Haven passò di proprietà alcune volte, finchè nel 1988, in marzo (mese micidiale per la famiglia di petroliere spagnole) subì un attacco missilistico dalla fregata iraniana Pasdaran mentre era rimorchiata verso Singapore per importanti lavori di riparazione.. Dopo quasi tre anni di lavori, a fine 1990, ottenute le certificazioni classifica ABS e Life Extension, ripartì per il Golfo Persico per l’armatore cipriota Ioannou con al comando Petros Grigorakakis.” 

A Genova la catastrofe fu evitata grazie alla sapiente gestione dell’emergenza attuata delle autorità competenti e in particolare dalla linea di condotta seguita dalla Capitaneria di Porto di Genova con la collaborazione dei Vigili del Fuoco e dei Rimorchiatori Riuniti di Genova che in perfetta sintonia coordinarono gli spostamenti della nave in fiamme per lasciar bruciare il più possibile il grezzo . 

La grande nave era lunga 334, metri poteva trasportare ben 230.000 tonnellate di petrolio, era giunta a Genova quasi a pieno carico con 224.000 tonnellate e il giorno 7 aprile ne aveva scaricato 80.000 tonnellate per la Tamoil. Dal 9 aprile si posizionò nella rada di Voltri sul punto M (Mike) in attesa di ordini dall’armatore. Fra il 10 e la mattina dell’11 l’equipaggio fece dei travasi di carico fra le stive per correggere l’assetto della nave. Ma verso le dodici e mezza dell’11 aprile si verificò una improvvisa e violenta esplosione che fece saltare in aria lo scudo di coperta di prora. L’esplosione provocò la morte del comandante Petros Grigorakakis e di quattro membri dell’equipaggio e scatenò l’incendio che prese sempre più forza e si concluse, dopo settanta ore, il 14 aprile con l’affondamento della nave . Secondo le stime degli esperti, in totale si riversarono incombuste in mare fra le 25 e le 35.000 tonnellate di grezzo, mentre tutto il resto bruciò. 

Ma per dovere di cronaca dobbiamo riportare alcune illazioni che circolarono all’epoca. Siamo in un terreno paludoso….sarebbe stato un caso ideale per il compianto Comandante Raimondo Bucher che condusse tante battaglie contro gli inquinatori del mare. Alcuni esperti ipotizzarono che un quantitativo rilevante di grezzo fosse rimasto nelle stive di carico. Le illazioni erano basate sul fatto che nel corso dell’incendio non potevano essersi bruciate più di 10/15.000 tonnellate di prodotto e conseguentemente un quantitativo considerevole doveva trovarsi ancora nelle cisterne. Quando le cisterne risultarono praticamente vuote alla prima ispezione di dettaglio che portò ad aprire tutti i boccaporti ancora chiusi, si avanzò l’ipotesi che, al momento dell’esplosione, la petroliera fosse praticamente quasi vuota e che a terra fossero stati scaricati quantitativi ben superiori di grezzo di quelli dichiarati. L’ipotesi si basava sul fatto che un quantitativo di 50.000 tonnellate di grezzo sbarcato in regime di frode fiscale poteva essere valutato in termini di circa 1000 lire di imposte evase per chilogrammo di prodotto (IVA, imposta di fabbricazione, diritti doganali, ecc) ovvero circa 50 miliardi di vecchie lire! Una somma che, anche divisa fra molte tasche, poteva tacitare molte bocche e tranquillizzare parecchie coscienze.

E seguirono altre considerazioni e illazioni secondo le quali più greggio c’era da recuperare e bonificare, più alto sarebbe stato il budget per gli..spazzini!
Qualche sospetto in verità sorge se si pensa che ancor oggi c’è chi denuncia la presenza di residui di greggio e chiede ulteriori stanziamenti. 

Seguirono interventi di monitoraggio e tempestive operazioni di bonifica sul relitto e lungo la costa. 

A un mese dall’affondamento i primi pesci seguivano già i sommozzatori al lavoro sul relitto.
Dopo tre mesi si manifestavano i primi segni di vita sulle strutture più alte (cassero, fumaiolo) sottoforma di alghe filamentose brune. Ma, dopo l’inquinamento macroscopico, si stava verificando un fenomeno molto interessante: la massiccia decomposizione dei residui caduti sul fondo o rimasti sulle pareti della nave ad opera di batteri ossidanti. I batteri portavano alla decomposizione dei residui di idrocarburi in acqua e anidride carbonica con simultanea emissione di vitamina B12 che, nell’ambiente, agisce da biocatalizzatore nell’assorbimento di sostanze nutrienti quali fosfati e nitrati da parte delle alghe. Le alghe inoltre si trovano avvantaggiate dalla presenza di anidride carbonica che assimilano per fotosintesi. Di fatto, quindi la prima azione di bonifica la fece la natura stessa . La stessa cosa è avvenuta di recente dopo l’incendio della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico dove i batteri stanno svolgendo una utilissima azione di bonifica. 

Oggi, a distanza di vent’anni, del grezzo dei primi mesi non c’è più traccia, di anno in anno la situazione ha avuto una costante evoluzione positiva che ha trasformato il relitto in una “grande barriera” sommersa, una sorta di scogliera ricca di grandi tane e spaccature. L’insieme costituisce senza ombra di dubbio una straordinaria oasi brulicante di vita. E si badi bene, di oasi vera si tratta in quanto il fondale circostante per miglia e miglia quadrate offre soltanto fango e sabbia. Conosco piuttosto bene la Haven, entro la profondità dei 45 metri. Ho seguito i primi lavori di bonifica dei 
sommozzatori lungo la costa di Arenzano quando si raccoglievano anche a manualmente dei tappeti di grezzo semi-solidifcato. Ho seguito e fotografato i lavori di taglio del fumaiolo e dell’albero.

Alle prime immersioni ne seguirono negli anni molte altre per documentare l’evolversi della situazione e le fasi di colonizzazione dei diversi organismi. La rivista SUB, per prima, pubblicava fin dal febbraio 1992 su 14 pagine un mio reportage, seguirono articoli in Russia (Octopus), Francia, Grecia, Gran Bretagna, Ungheria e in Italia su AQVA, Subaqva, Mondo Sommerso e vari quotidiani. Oggi posso garantire che la Haven è diventata un vero paradiso sottomarino. Lo conferma anche Massimo Corradi detentore di quattro titoli italiani di safari fotosub che afferma: “Conosco Il relitto come le mie tasche e vi garantisco che si tratta di un’oasi nel deserto”. Gli chiediamo quali sono le forme viventi più comuni? Fra i pesci sono ormai stanziali: Saraghi fasciati, maggiori e pizzuti; dentici, barracuda, tanute, boghe, acciughe, boghe, gronghi, murene, aragoste, castagnole, anthias, apogon, donzelle, orate e tante specie di bavose. Pesci più occasionali: ricciole, sugarelli,palamite, sgombri, mola-mola (pesca luna) e pesci balestra. Fra gli organismi che vivono sulla struttura, spugne incrostanti di diverso colore,ostriche, conchiglie bivalvi, anemoni gioiello di diversi colori, madrepore, idrozoi, anemoni, spirografi, serpule, cerianthus, crinoidi mediterranei e un gran campionario di nudibranchi.

Anche Gino Sardi proprietario del Diving center Techdive di Arenzano conferma le prerogative eccezionali della Haven e afferma: “Il relitto ha trasformato una tragedia di un grande affare con ricadute positive per il turismo, per i cittadini, per il blocco della pesca a strascico e per la fauna marina”. E continua “Secondo i dati in mio possesso, da quando sono state aperte le immersioni si sono immersi sulla Haven fra i 12 e i 15000 subacquei ogni anno”. Da quali nazioni arrivano i sub gli chiediamo? “Praticamente da tutto il Mondo, escludendo l’Africa e l’Australia” Concludiamo chiedendogli se ricorda l’immersione di qualche personaggio famoso. “Si, Gino Paoli, il campione di pesca subacquea Carlo Gasparri, l’ex presidente della Mares Claudio Ferrantino, Jan Jabrowsky fondatore della Global Underwater Exploration”. 


Il relitto della Haven giace in assetto di navigazione alla profondità di circa 75/80 metri a 1,7 miglia dal porto di Arenzano. La nave è orientata longitudinalmente da nord/nord ovest a su/sud est e poiché l’acqua in zona è quasi sempre molto limpida offre ai sub già da pochi metri dalla superficie uno spettacolo mozzafiato. Ovviamente non è possibile vedere tutta la nave che è lunga 250 metri ma l’imponente struttura del castello e quella del fumaiolo meritano più di un premio ..Oscar. Si tratta di una immersione da non perdere assolutamente.

Per visitare la Haven in assoluta sicurezza ci si può rivolgere ai Centri Immersioni di Arenzano E proprio per immergersi in sicurezza e con sufficiente tranquillità riportiamo le regole base frutto di tanti anni di attività di Gino Sardi ex proprietario del Tech Dive di Arenzano.

– Non ammettere alle immersioni chi non è abilitato alla profondità interessata. Non devono valere le attestazioni di bravura che amici e amici-istruttori, si prodigheranno a produrre.

– Avere il coraggio di sconsigliare l’immersione a chi non è sufficientemente preparato o esperto, il grado di preparazione si desume dal log-book. Io non ho la capacità di valutare un sommozzatore a colpo d’occhi, e neppure la presunzione di saperlo fare: solo il log-book può essere un elemento di valutazione attendibile e imparziale.

– Proporre un buon briefing, con l’ausilio di: fotografie, disegni, filmati e quant’altro possa essere utile a “spiegare” il relitto, anche se far questo fa spendere tempo (e i tempo è denaro). Quanto più il sommozzatore avrà “visualizzato2 l’immersione in tutte le sue fasi, tanto meglio si saprà muovere sott’acqua.

– Pianificare bene con gli altri sommozzatori l’immersione, quindi: tempi di fondo, percorsi, comportamenti, sicura individuazione delle guide, calcolo dei consumi di gas e conseguente gestione degli stessi stabilendo la disponibilità ammessa, pianificazione della deco e, per i sommozzatori abilitati ad eseguirle le procedure da seguire in caso di incidenti o inconvenienti anche di lieve entità.

– Predisporre sul luogo dell’immersione un’adeguata stazione decompressiva con trapezi ad almeno tre e sei metri; sulla stessa devono essere disponibili scorte di gas in quantità sufficiente a fronteggiare le possibili esigenze dei sub, così come devono essere disponibili in numero sufficiente i secondi piani. Le bombole devono essere tutte spostabili facilmente a tre o sei metri a seconda delle necessità. La stazione deco non deve essere appesa al natante appoggio, ma deve essere sostenuta da due palloni di adeguata robustezza e spinta positiva; in questo modo, risentirà in misura ridotta al moto ondoso. In caso di corrente i palloni dovranno essere tre, in modo da poter chiudere a triangolo la stazione deco e limitare gli effetti fastidiosi della corrente e consentire il mantenimento della quota deco senza penare troppo. La stazione dovrà essere collegata alla cima di discesa, solidale al relitto con una seconda cima sganciabile, fissata a circa dieci metri dalla superficie, che servirà da guida per i sub in risalita. I palloni sono collegati fra loro e la cima che li unisce, prosegue fino alla barca appoggio costituendo una sorta di “cima geriatria” che rende più agevole raggiungere il natante in caso di corrente. La cima, dopo aver attraversato il natante è fissata in superficie sulla cima di discesa; in questo modo il natante in caso di necessità può spostarsi e trasportare a terra chi necessita di soccorso o compiere altri interventi di emergenza,lasciando tutta la stazione deco solidamente ancorata al relitto e a disposizione dei sub che sono ancora in decompressione.

Gianni Risso